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40 anni di virus informatici
Articolo
07 Aprile 2023

Quando i computer scoprirono di essere viventi

Virus informatici: ultimi 40 anni

Nel 1983 Fred Cohen presenta il primo esempio di virus informatico e dimostra che i computer sono macchine diverse da tutte le altre perché, come gli esseri viventi, si possono ammalare. 

Di norma, gli anniversari che celebriamo sono legati a eventi positivi nella vita delle persone e delle imprese. La fondazione di un’istituzione o di un’azienda, una scoperta scientifica, un’invenzione, la nascita di una grande persona. Questa volta vogliamo fare un’eccezione e parlare della nascita di una calamità Nel 2023 infatti ricorre il 40° anniversario della scoperta di un virus molto particolare, perché (molto prima del Covid19) generato dall’uomo allo scopo, apparentemente bizzarro, di far ‘ammalare’ le macchine. 

Era l’11 novembre del 1983 quando uno studente informatico della University of Southern California di nome Fred Cohen presentò alla comunità scientifica americana il primo virus informatico capace di prendere il controllo di  un personal computer. Cohen dimostrò gli effetti di un malware, il quale, proprio come fanno i virus, si propagò, tramite floppy disk su un programma di grafica chiamato VD.

L’idea stessa di virus informatico (l’intuizione di chiamare virus i malware informatici venne a un matematico biologo di nome Leonard Adleman) era, allo stesso tempo, potente e sconvolgente. Sconvolgente perché era difficile comprendere che un oggetto inanimato potesse essere vittima di un virus, più o meno allo stesso modo in cui lo sono gli organismi viventi; potente perché gli effetti di questo esperimento scientifico avrebbero implicato che anche i computer, che si ritenevano totalmente affidabili e infallibili, potevano essere corrotti, producendo, come le calamità naturali, effetti disastrosi nella vita delle persone.

Esattamente come avviene nel caso dell’industria farmaceutica, la scoperta di una nuova e potenzialmente catastrofica malattia diede un impulso straordinario all’industria della ‘salute’ informatica, la quale all’istante si attivò per costruire efficaci programmi di difesa contro le minacce di questa nuova branca della virologia. 

La presa di coscienza della vulnerabilità ‘biologica’ dei computer, cambiò anche il loro status ‘ontologico’. I computer non potevano più essere semplicemente considerati oggetti inanimati, seppur sofisticati e ipertecnologici, ma dovevano essere trattati alla stregua di veri e propri organismi viventi perché, in quanto tali, soggetti a medesimi processi vitali: creazione, sviluppo, malattia, invecchiamento e morte.

Si comprese, infatti, che i computer non soltanto si ammalano, ma invecchiano pure. Tale ‘scoperta’ rese indispensabile pensare e progettare non solo scudi di protezione contro i virus, ma anche protocolli di conservazione dei dati che ne consentissero la fruizione nel lungo periodo. Una sorta di paradiso dei dati, cui poter continuare ad attingere anche dopo la morte (per malattia o invecchiamento) del singolo computer. 

Tutto ciò aiuta, inoltre, a comprendere perché la tutela dei dati e la garanzia della loro conservazione rappresentano elementi fondamentali della strategia di valorizzazione della memoria d’impresa dei progetti Made In Heritage.

Il nostro obiettivo principale è quello di garantire la sopravvivenza e trasmissione della tradizione e dei valori aziendali, anche attingendo alle opportunità tecnologiche offerte da un’altra forma di sviluppo quasi biologico dell’informatica, quello dell’intelligenza artificiale (#AI), resistendo così alle insidie che la realtà (materiale e virtuale) costantemente e inevitabilmente pone.

 

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